La rappresentazione del costrutto “scienza” nei manuali diagnostici. Una ricerca esplorativa sull’uso del termine scientifico nell’ICD-10, nel DSM-5 e nel PDM

La representación de la construcción de “ciencia” en los manuales de diagnóstico. Una investigación exploratoria sobre el uso del término científico en la CIE-10, en el DSM-5 y en el PDM

The Representation of the “Science” Construct in the Diagnostic Manuals. An Exploratory Research on the Use of the Scientific Term in the ICD-10, in the DSM-5 and in the PDM

Antonio Iudici *
University of Padova, Italia
Jessica Neri
University of Padova, Italia
Elena Faccio
University of Padova, Italia

La rappresentazione del costrutto “scienza” nei manuali diagnostici. Una ricerca esplorativa sull’uso del termine scientifico nell’ICD-10, nel DSM-5 e nel PDM

Avances en Psicología Latinoamericana, vol. 36, no. 3, 2018

Universidad del Rosario

Received: September 08, 2016

Accepted: April 25, 2018

Additional information

Cómo citar este artículo: Iudici, A., Neri, J. & Faccio, E. (2018). La rappresentazione del costrutto “scienza” nei manuali diagnostici. Una ricerca esplorativa sull’uso del termine scientifico nell’ICD-10, nel DSM-5 e nel PDM. Avances en Psicología Latinoamericana, 36(3), 553-568. DOI: https://doi.org/10.12804/revistas.urosario.edu.co/apl/a.5136

Sommario: Ogni disciplina e approccio teorico si caratterizzano per la ricerca di un definito grado di scientificità che li possa legittimare. Nella comprensione dei fenomeni psicologici e nel campo eterogeneo della psicologia clinica si possono trovare espressioni linguistiche e criteri legati alla scienza differenti tra loro, con altrettante ricadute pragmatiche. In questa ricerca si sono esplorati i significati legati all’uso del termine “scientifico” in alcuni manuali diagnostici: ICD-10, DSM-5 e PDM. Il metodo usato è stato quello della rappresentazione perspicua, ovvero un sistema di analisi linguistica volta a individuare alcune unità simboliche presenti nei manuali. I risultati hanno consentito di sottolineare i significati legati ai diversi modi di intendere la scientificità e di avanzare alcune proposte operative. In conclusione, si può mettere in evidenza come l’uso del costrutto “scienza” e le espressioni linguistiche ad esso collegate sia molto differente nei tre manuali indagati e fa riferimento a campi di significato molto differenti l’uno dalle altre. Si evidenzia infine l’importanza di fondare il costrutto “scienza” in funzione dei propri specifici riferimenti concettuali.

Parole: linguaggio, diagnosi, epistemología, rappresentazione perspicua.

Resumen: Cada disciplina teórica se caracteriza por la búsqueda de un grado definido de carácter científico que la puede legitimar. En la comprensión de los fenómenos psicológicos en psicología se pueden encontrar expresiones lingüísticas, criterios científicos e implicaciones pragmáticas diferentes. En esta investigación intentamos de explorar los significados de la utilización del término “científico” en algunos manuales diagnósticos: ICD-10, DSM-5 y PDM. El método utilizado fue el de la representación perspicaz, es decir, un sistema de análisis lingüístico destinado a identificar algunas unidades simbólicas presentes en los manuales. Los resultados obtenidos permitieron subrayar los significados relacionados con diferentes formas de entender la cientificidad y presentar algunas propuestas prácticas. En conclusión, puede destacarse cómo el uso de la construcción “ciencia” y las expresiones lingüísticas relacionadas con esta, son muy diferentes en los tres manuales investigados y se refieren a campos de significado muy diferentes entre sí. Finalmente, se subraya la importancia de fundar la construcción “ciencia” según sus propias referencias conceptuales específicas.

Palabras clave: ciencia, lenguaje, diagnosis, epistemología, representación perspicua.

Abstract: Disciplines and theoretical approaches are characterized by the research of a defined scientific status in order to legitimate them. To understand psychological phenomena in the heterogeneous field of clinical psychology, different linguistic expressions and scientific criteria can be found, as well as many pragmatic consequences. In this research we tried to explore the meanings related to the use of the term “scientific” in some diagnostic manuals: the ICD-10, the DSM-5 and the PDM. The method used was that of perspicuous representation, i.e. a system of linguistic analysis aimed at identifying some symbolic units present in the manuals. The results allowed to highlight the meanings related to the different understandings of science and to advance some operative suggestions. In conclusion, it can be highlighted how the use of the construct “science” and the linguistic expressions related to it are very different in the three manuals investigated and refers to fields of meaning very different from each other. Finally, the importance of founding the construct “science” according to its own specific conceptual references is underlined.

Keywords: Science, language, diagnosis, epistemology, perspicuous representation.

Introduzione

Il presente articolo intende esplorare i significati attribuiti ai termini “scienza” e “scientifico” in alcuni dei principali manuali diagnostici usati in ambito psichiatrico, psicologico e sociale. Lo studio della letteratura (Laudan, 1977; Putnam, 2004; Pickergill, 2014) ha evidenziato che il riferimento al costrutto di scienza non sempre è accompagnato da una consapevolezza circa le sue derivazioni epistemologiche e le sue implicazioni operative. Nonostante gli sforzi dei redattori e dei gruppi di esperti che hanno lavorato alle varie revisioni, nei manuali trovano spazio espressioni linguistiche richiamanti la scienza molto differenti le une dalle altre. Alcune ragioni di ciò sono anche di tipo storico, infatti se per discipline come la matematica e la chimica il processo di formalizzazione delle teorie e dei metodi ha consentito la generazione di linguaggi specifici, nelle scienze psicologiche, psichiatriche e sociali (considerate un tempo per questo “deboli”) i tentativi di formalizzazione non hanno prodotto definizioni univoche, pertanto il loro linguaggio si confonde con quello ordinario e ciò ha dato adito a non pochi fraintendimenti. Oltretutto, l’annoso e sterile dibattito tra discipline considerate forti e cosiddette deboli, si è tradotto spesso nel tentativo da parte delle seconde di avvicinarsi alle prime, cedendo al riduzionismo e rinunciando all’esercizio della complessità, epistemica ma anche linguistica (Harrè & Tissaw, 2005). Il diverso modo di intendere la scientificità può dunque comportare un differente approccio ai fenomeni cosiddetti psicologici, con ricadute pragmatiche rilevanti sia nella condivisione di temi e di metodi tra i professionisti della “salute mentale”, sia nella gestione della domanda espressa da chi porta il problema.

Con la presente ricerca ci siamo proposti di indagare le pratiche d’uso di alcuni termini “scientifici” presenti nei più conosciuti ed utilizzati manuali diagnostici e di problematizzare alcune questioni inerenti alla fondatezza, ai campi di applicazione e agli oggetti di lavoro di ciò che chiamiamo scienza.

Premessa etimologica ed epistemologica

Il termine “scienza” proviene dal latino “scientia”, derivato da “sciens”, participio presente del verbo “scire”, ovvero “sapere, conoscere”. Le origini dell’unità simbolica permettono di evidenziare alcune particolarità che si rivelano nell’uso quotidiano della parola e che si sono sviluppate attraverso i diversi cambiamenti storici, sociali e culturali. Per esempio, oggi si fa spesso riferimento alla scienza secondo il significato avente origine nel periodo della Rivoluzione Scientifica, ossia come insieme di conoscenze empiriche controllabili e di tecniche precise per l’investigazione della natura, note come “metodo scientifico” (Boniolo & Vidali, 2003). La ricerca storica e filologica consente di osservare come sono cambiati nel corso dei secoli l’idea di scienza e i suoi criteri di validità, il modo di conoscere e considerare il reale e gli elementi più rilevanti che l’hanno caratterizzata. La scienza, o le scienze, non sono attività slegate dall’uomo che le costruisce, infatti il ricercatore difficilmente può mettere tra parentesi il suo sistema di conoscenze nel rapportarsi a tali attività (Migone, 2013a). Questo poiché non esistono fatti ed eventi “bruti” ma sempre, osservati e mediati da certi punti di vista, costruiti linguisticamente: “fatto” è ciò che è stato fatto (participio passato) da qualcuno, non un ente in sé e per sé (Salvini, 2004).

Per questo motivo la scienza può essere considerata “gnosis”, ovvero conoscenza del senso del reale in continua evoluzione. Ad un’epistemologia individuale e stadiale del conoscere, si viene a sostituire un’epistemologia di tipo sociale e storica. È il ricercatore e le retoriche del conoscere adottate dalla comunità degli scienziati a circoscrivere cosa si possa conoscere e come lo si possa configurare. Alcuni eventi hanno senza dubbio contribuito a “saltare” entro questa concezione del processo scientifico: ad esempio l’introduzione del principio d’indeterminatezza di Heisenberg, il quale segna un momento fondamentale nella fisica e nel modo di conoscere la realtà (Heisenberg, 1985). Esso ci dice che quando abbiamo l’illusione di conoscere un fenomeno, questo è già cambiato: un fisico non può determinare simultaneamente posizione e movimento di una particella poiché quanto più esattamente cerca di determinare la sua posizione, tanto più approssimativa sarà la precisione nella misura della sua quantità di moto, perché nel frattempo la realtà si è modificata. Ciò accade anche per il fatto che sta cercando di conoscerla. Il singolo elettrone è un oggetto confuso, indeterminato, e quanto minore è il numero degli elettroni con cui il fisico ha a che fare, maggiore è l’indeterminazione delle sue conclusioni. Che significa questa indeterminazione? Non certo che la scienza è immatura, quanto piuttosto che l’oggetto e il soggetto del conoscere partecipano ad un processo di cambiamento reciproco (Turci & Roveroni, 1987; Castiglioni & Corradini, 2003).

La fisica quantistica ha cosi demolito due colonne della vecchia scienza: causalità e determinismo in favore dell’incertezza del prodotto, e della stretta relazione tra osservatore e osservato. Trattando in termini di possibilità si abbandona ogni idea che la natura proceda attraverso un’inflessibile sequenza di cause ed effetti.

La concezione del fatto di natura muta radicalmente, esso non è più ritenuto come una cosa “concreta” rappresentabile direttamente da una legge o da una teoria, il fatto diventa un “artefatto”, costruito dagli scienziati e dai loro strumenti per mezzo dei quali lo “istituiscono”. I fatti sono dati di storia, “la storia delle teorie che ne parlano” (Antiseri, 1999). I nuovi significati nati in seno alla fisica quantistica problematizzano la possibilità di produrre teorie e risultati definitivi, neutrali e oggettivi. Queste considerazioni e l’utilità della riflessione epistemologica diventano ancora più rilevanti in ambiti conoscitivi in cui il rapporto tra il linguaggio e la scientificità risulta attenuato e diversamente regolato. Se per il fisico o per il chimico è più agevole studiare in maniera coerente e rigorosa i propri oggetti di studio, poiché questi possono essere configurati attraverso un linguaggio formalizzato, per gli operatori delle scienze psichiche e sociali questo non è possibile, poiché l’oggetto di studio non è facilmente separabile da colui che osserva e il linguaggio usato da operatori e pazienti è lo stesso. Per questo motivo non possiamo dare per scontato alcun riferimento alla “scienza” o a ciò che assumiamo essere “scientifico” e dobbiamo chiarire se ci atteniamo ai criteri scientifici propri delle discipline naturali o a quelli più sfumati e complessi delle discipline umane ed interpersonali. Da qui la necessità di approfondire i modi di intendere la scientificità nei sistemi diagnostici e le implicazioni da queste derivati sulla legittimazione delle discipline e dei professionisti che in essi si riconoscono.

Diagnosi e sistemi di classificazione

Strettamente legato alla questione della scienza come processo conoscitivo, ovvero come “gnosis” del senso del reale, si trova il procedimento diagnostico, dall’ultimo secolo elemento caratterizzante la medicina, la psichiatria e la psicologia. Etimologicamente, il termine diagnosi deriva dal greco (dia = attraverso e gnosis = conoscenza) e ha il significato di “conoscere attraverso, discernere, distinguere”. Il processo di “distinzione” consente di attribuire un nome alle cose, aiuta a conoscere il mondo e allo stesso tempo a costruirlo, serve per affermare le differenze tra le esperienze ma anche a creare categorie che le racchiudano in macro sistemi conoscitivi. In medicina la diagnosi implica la raccolta d’informazioni nei termini di segni e sintomi al fine di identificare una particolare patologia e permette di stabilire una prognosi e un trattamento. L’obiettivo consiste nella cura della malattia organica e solo quando la conoscenza del processo morboso è totale, sembra realizzarsi il progetto conoscitivo della prassi medica, ovvero la possibilità di individuare o mettere a punto un efficace progetto di cura. La psichiatria e i vari modelli psicologici hanno tentato di costruire modalità proprie per discernere la “salute” e la “malattia”, usando tuttavia lo stesso procedimento così come viene utilizzato in ambito medico (Salvini, 2004; Faccio, 2013; Iudici, 2014; Migone, 2013b; Iudici & Renzi, 2015). Ciò ha portato ad avvalersi di termini da esso derivati (come quelli di “diagnosi”, “malattia”, “eziologia”, “causa”, “prognosi” ecc.) e a usare metodi e tecniche nei confronti dei fenomeni “psicologici” ponendoli sullo stesso piano di enti fisici e organici.

Anche alla luce di tali riferimenti si sono costruiti e storicamente sviluppati diversi sistemi diagnostici afferenti alle tre discipline. Quelli al momento più utilizzati e accreditati a livello internazionale sono:

L’uso differente del linguaggio e le diverse formule linguistiche impiegate nei manuali configurano in modi peculiari l’oggetto di indagine scientifico, il procedimento conoscitivo alla base della diagnosi, nonché il modo di significare le realtà fenomeniche delineate (caratteristiche sintomatologiche, prototipi di personalità, ecc.). I tre manuali, pur considerati scientifici, danno dunque luogo a differenti approcci diagnostici, con altrettante significative ricadute pragmatiche.

È dunque di nostro interesse rilevare le implicazioni date dall’uso del sostantivo “scienza” nelle specifiche modalità diagnostiche di questi manuali.

Ricerca

Assunti concettuali

Le premesse teoriche e concettuali della ricerca sono rappresentate dal pensiero di Berger e Luckmann (1966) circa la costruzione linguistica della realtà, e dalla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein (1953). I primi hanno sostenuto che la realtà si genera attraverso processi di oggettivazione dei significati soggettivi, i quali nella loro forma estrema, non sono più visti come prodotti intersoggettivi. “I discorsi degli scienziati” non vengono dunque colti come tali, ovvero come relativi ad un contesto ed al processo di negoziazione linguistica di una specifica comunità scientifica, ma diventano “la scienza”, immaginata come a-storica e neutra rispetto al contesto che l’ha generata, grazie al processo di reificazione. Come dicono gli autori stessi “l’uomo è in grado di generare una realtà che, paradossalmente, tende a negarlo” (Berger & Luckmann, 1966, p. 128).

Uno studio attento delle formule linguistiche attraverso le quali la scienza diventa “cosa” ci consente di cogliere gli impliciti di questo processo di oggettivazione. È proprio Wittgenstein a suggerire che molti problemi epistemici presenti nel campo psicologico derivino principalmente dal modo in cui si parla di quegli stessi fenomeni. Egli propone un’analisi di queste modalità al fine di indagare gli effetti pragmatici della realtà che si genera. Secondo il filosofo austro-ungarico diventa utile analizzare, oltre all’etimologia, l’insieme dei contesti nei quali l’uso del termine risulta proprio o improprio. Wittgenstein sviluppa questo metodo con lo scopo di rendere visibile l’uso delle parole ed esso consiste fondamentalmente nel “vedere le connessioni” tra termini e, quindi, di trovare e costruire “casi intermedi” (Wittgenstein, 1953, p. 122).

Si è quindi deciso di utilizzare il metodo proposto dall’autore denominato “rappresentazione perspicua”, metodologia che focalizza l’attenzione sui possibili “giochi linguistici”, ovvero su eventuali similarità, differenze e particolarità e sull’uso metaforico e/o analogico di certe unità simboliche, quindi sui significati assunti dai termini nei diversi contesti d’uso.

Obiettivi

Gli obiettivi della ricerca possono essere così sintetizzati:

Metodo: la rappresentazione perspicua

L’analisi linguistica ha avuto inizio con l’individuazione di tutte le unità simboliche inerenti al sostantivo “scienza” e l’aggettivo “scientifico” nei tre manuali considerati. Tale individuazione è avvenuta sulla base di similarità grammaticali e tematiche e ha dato luogo ad un raggruppamento in categorie concettuali, ciascuna delle quali è stata ritenuta rilevante per l’analisi dei criteri di scientificità utilizzati e per la comprensione dell’intero processo di conoscenza scientifica. Viene svolta, quindi, a tutti gli effetti, una rappresentazione perspicua, per mezzo della quale si elencano qui di seguito le categorie concettuali individuate:

  1. “Scienza medica, scienza dei disturbi mentali e scienza psicologica”.

  2. “Conoscenza e comprensione scientifica”.

  3. “Principi scientifici”.

  4. “Comunità scientifica”.

Successivamente sono stati analizzati i modi d’uso dei termini all’interno delle stesse categorie, mettendo in evidenza i loro significati e le possibili implicazioni pragmatiche. Tale analisi è stata svolta attraverso i seguenti criteri metodologici:

Per tutte le categorie costruite, i vari modi di usare i termini “scientifici” sono stati analizzati e contestualizzati criticamente, e hanno consentito una riflessione sulle configurazioni di senso e sulle implicazioni che ne derivano nella pratica clinica e nella ricerca.

Risultati

“Scienza medica, scienza dei disturbi mentali, scienza psicologica”

All’interno del manuale ICD-10 emerge un modello di scienza caratterizzato dall’uso di categorie mediche nel tentativo di spiegare il comportamento umano (sindromi, disturbi, sintomi, psicopatologia, ecc.) e da continui riferimenti a tecniche e strumenti afferenti alla biologia e alla neurologia poiché ritenute più valide e in grado di individuare relazioni causali tra fenomeni psicologici. Pertanto, l’ICD-10 appare costruito principalmente intorno alla prassi medica, tralasciando i possibili riferimenti alle discipline della psicologia e della psichiatria, nonostante la presenza del capitolo relativo ai “Disturbi psichici e del comportamento”. Oltre al sancire la prassi medica come scienza, emergono altri elementi fondamentali ad essa legati, ad esempio l’idea della classificazione statistica come attività in continua via di sviluppo, ma anche il dubbio relativo al fatto di poter giungere ad un tipo di classificazione certa e definitiva.

Nel caso del DSM-5 si parla, invece, di “scienza dei disturbi mentali”, probabilmente associata alla disciplina psichiatrica, anche se non precisamente menzionata. Ciò in relazione all’evidenza che i termini “psichiatrico” o “psichiatria” vengono ripetuti più volte, al contrario del termine “psicologia” che rimane assente in tutto il manuale.

Nel manuale si trova la frase “La scienza dei disturbi mentali continua ad evolversi” (APA, 2013, p. 5), tuttavia non si descrive in cosa consiste questo tipo di scienza, oltretutto la non necessità di problematizzarne l’oggetto di studio o le sue fondamenta teoriche, lascia intendere che si faccia implicitamente riferimento al modello bio-medico e ad un paradigma di tipo meccanomorfico 1 secondo cui ci si può approcciare all’uomo in maniera oggettiva, neutrale e ateorica, così come suggerito anche dalle precedenti edizioni del DSM. In questo modo, si rischia di non porre attenzione al problema conoscitivo (dato ad esempio dalla mutuazione di concetti medici in ambito psichiatrico), ma di dare priorità al dato rilevato, mutuato dalla tradizione empirista o dalle scienze fisiche. Derivando inoltre il dato dai risultati provenienti dalla biologia, dalla genetica e dalle neuroscienze, nonché assimilando l’idea di scientificità a quella di esattezza diagnostica, si presenta il rischio di far assumere ai “problemi psicologici” l’aspetto di “oggetti naturali”. A questo proposito, può essere utile sottolineare come i linguaggi dell’ICD e del DSM siano caratterizzati da alcune allusioni, metafore e analogie che spesso portano con sé la tendenza ad essere utilizzate in maniera letterale, andando a produrre realtà che appaiono effettive. Quest’uso del linguaggio sembra poter permettere di parlare di malattie e di sintomi non come indicatori convenzionali (ad oggi non standardizzati), ma quasi come se fossero “cose in sé” finendo per considerare, ad esempio la “depressione”, non come un’esperienza che la persona fa di sé, ma come una vera e propria patologia (psichica), così come avviene nel campo organico (Faccio, Mininni & Rocelli, 2018; Faccio et al., 2016).

Il PDM si distingue in modo netto. Fin da subito si sottolinea come il suo sviluppo rifletta la preoccupazione del gruppo di studiosi che l’ha implementato, in particolare rispetto alla possibilità di adottare in modo prematuro e acritico i metodi delle altre scienze anziché sviluppare procedure empiriche appropriate alla complessità del loro campo di studio, descritto come “psicologico”. All’interno del Manuale si specifica la necessità di partire da una descrizione precisa dei fenomeni per poi procedere gradualmente verso una validazione empirica, intendendo tale procedimento come “buona scienza”. Quest’ultima può essere caratterizzata inoltre dal legame tra diagnostica descrittiva, ricerca empirica e contributo psicodinamico, con accento sugli elementi “fondamentali” della psicoanalisi (p. XXIII), rappresentati nel PDM da assi specifici su modalità di funzionamento mentale e di esperienza soggettiva che costituiscono l’“irrinunciabile valore aggiunto dell’approccio psicoanalitico rispetto alla nosografia psichiatrica tradizionale” (p. XXIII). Da qui si può dedurre che, al contrario, una “cattiva scienza” potrebbe mancare di alcuni elementi considerati essenziali, come il giudizio clinico e l’importanza della soggettività e della teoria. Mancanti di questi elementi, i sistemi diagnostici potrebbero essere considerati troppo impersonali o focalizzati solamente su dati neuroscientifici. L’esito di tale distinzione comporta comunque la contrapposizione tra apparati diagnostici nosografico-descrittivi e interpretativo- esplicativi (p. XXIII).

La scienza, secondo il PDM, dovrebbe quindi essere empirica, integrare teoria e pratica, dare importanza al contesto clinico, avvalersi di strumenti e metodi appartenenti anche ad altre discipline, che possano garantire l’efficacia dei trattamenti e contribuire al dialogo tra clinici e ricercatori di orientamenti diversi. Il focus non viene posto tanto sui contenuti delle teorie psicodinamiche, dei quali si confermano il valore e l’utilità, quanto sulla possibilità di pervenire a diagnosi “corrette”, mediante un approccio empirico e cercando di integrare interpretazione psicodinamica e nosografia psichiatrica (includendo la possibilità di integrazione tra i manuali PDM, ICD e DSM).

“Conoscenza e comprensione scientifica”

Mentre nell’ICD-10 non si trovano termini che rimandano alla categoria concettuale della conoscenza e della comprensione scientifica, nel DSM-5 e nel PDM si trovano alcune frasi e periodi a essa riferiti.

Nel DSM-5 la scienza è considerata come un’attività conoscitiva che sembra avere delle carenze, ma continuamente perfettibile, obiettiva e in grado di portare a progressi oggettivi per diverse discipline. Se ne deduce così un modo di intendere la conoscenza scientifica che rimanda a una visione positivistica della stessa. Uno dei temi più rilevanti che emerge dal Manuale riguarda la tecnica e il suo sviluppo, ritenuti elementi in grado di garantire uno statuto di scientificità. A questo proposito, alcune definizioni presenti nel Manuale e proposte come alternative ad altre della versione precedente, sono state però riconosciute come “scientificamente premature” (p. 13) e a questo proposito, il nuovo approccio dimensionale potrebbe contribuire a migliorare la ricerca relativa alla definizione delle categorie diagnostiche. Si sottolinea, infatti, il tentativo di rispettare lo “stato della scienza” (p. 10) nell’integrare utilità clinica, “informazione scientifica ben replicata” (p. 10) e accordo tra operatori al fine di sviluppare una comunicazione condivisa e basata sugli stessi criteri. In questo spirito, anche la revisione dell’organizzazione del manuale è vista come una “riforma diagnostica conservativa ed evolutiva guidata dall’emergente evidenza scientifica nelle relazioni tra disturbi” (p. 10) fornendo attualmente alla evidence-based research un ruolo preminente e rappresentativo del progresso scientifico, in termini di quantificabilità e oggettività. In questo senso, l’essere prematuro di cui sopra si riferirebbe alla mancanza di risultati che soddisfino i criteri di replicabilità, quantificabilità e validità, peculiari nell’ambito della “tecnica”. Al contrario, la “maturità scientifica” sarebbe caratterizzata dalla neutralità, dalla certezza e dall’oggettività.

Nel PDM, invece, si associa la conoscenza scientifica alla possibilità di comprensione. Infatti è scritto “Ironia della sorte, sembra che l’ipersemplificazione dei fenomeni della salute mentale, pensata per ottenere descrizioni coerenti (attendibilità) e per favorire la valutazione empirica dei trattamenti (validità), abbia invece ostacolato il raggiungimento del lodevole scopo di una comprensione più scientifica della salute e della patologia mentale” (PDM, 2006, p. LVIII).

Emerge una differenza rilevante tra i due manuali citati: nel DSM-5 la conoscenza scientifica si persegue attraverso tecniche che possano produrre risultati quantificabili e validi in conformità a prove evidenti, mentre nel PDM tutto ciò viene in parte criticato enfatizzando il bisogno di “integrare il sistema di classificazione attuale con una descrizione più completa della salute mentale e dei suoi disturbi partendo da un consenso tra le “opinioni degli esperti” basato su osservazioni cliniche attente e informate da una comprensione adeguata delle ricerche attuali e di quelle in corso” (p. LVIII).

L’esperienza e il giudizio clinico vengono mostrati come parte integrante dell’impresa scientifica, infatti si utilizza l’espressione “comprensione scientifica” piuttosto che “conoscenza scientifica”. In questo senso viene contrastata la standardizzazione, in favore del “giudizio clinico nella scelta degli interventi o nell’interpretazione dei dati” (p. 588). L’importanza attribuita a questo elemento viene affermata più volte, giustificando quel procedimento per tentativi ed errori che è caratteristica del “clinico-scienziato” e non dello “scienziato-clinico” e che si attua per via di “tutte le ore che i clinici a tempo pieno impiegano con i loro pazienti” (p. 641).

“Principi scientifici”

Nell’ICD-10 si parla di principi “scientifici” per indicare quei principi utilizzati al fine di costruire la famiglia di classificazioni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal WHO-FIC Network. In particolare, il termine che precede quello dei “principi” è “solidi”, ovvero solidi principi scientifici e tassonomici, evidenziando così i legami tra la scientificità e la tassonomia e tra i principi e la validità degli stessi.

Nel manuale è riportato “l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il WHO-FIC Network si sono sforzati di costruire la famiglia delle classificazioni che è basata su principi scientifici e tassonomici, culturalmente appropriata, applicabile a livello internazionale e focalizzata sugli aspetti multidimensionali della salute la quale soddisfa i bisogni dei suoi differenti utilizzatori” (WHO, 2010, p. 4).

In questa frase si sottolinea il rigore alla base della classificazione utilizzata dal manuale per giustificarne lo scopo: quello di stabilire un linguaggio comune che possa perfezionare la comunicazione e permettere delle comparazioni di dati tra discipline sanitarie nei diversi paesi. Lo scopo del manuale viene precisato fin dall’inizio, ma non si fa altrettanto per fondare epistemologicamente i suddetti principi, ad esempio rispetto alla loro definizione teorica, alle metodologie e agli strumenti operativi a cui si riferiscono.

In riferimento ai criteri diagnostici, l’organizzazione del Manuale risulta diversa e in competizione con il DSM: quest’ultimo si è imposto maggiormente a livello internazionale rispetto all’ICD, poiché, nel corso delle varie edizioni, si sono maggiormente definite le caratteristiche sintomatologiche, di tipo descrittivo, e il numero minimo di criteri per fare diagnosi, ad esempio 5 criteri su 8 (De Girolamo & Migone, 1995). Un’importante differenza consiste inoltre nel fatto che l’ICD-10 si compone di due diversi manuali, uno per il clinico, più flessibile, e l’altro per il ricercatore, più preciso, in quanto l’OMS ha ritenuto pericoloso per la pratica clinica l’adozione di criteri diagnostici rigidi come invece prevede il DSM (Migone, 1996). Questi elementi possono stimolare una riflessione in merito ai vari approcci diagnostici e ai loro criteri operativi, nonché rispetto ai loro contesti applicativi. Già nella “Prefazione” del DSM-5, si esplicita come il Manuale costituisca una guida utile alla pratica clinica e possieda una nomenclatura applicabile anche da diversi modelli teorici per via di un linguaggio comune sugli aspetti essenziali dei disturbi mentali (p. XLIII). Inoltre, i criteri di riferimento sono definiti come precisi e chiari e volti a facilitare la valutazione oggettiva dei sintomi in una varietà di setting clinici e negli studi epidemiologici dei disturbi mentali. Nella quinta edizione del Manuale vengono enfatizzati alcuni elementi particolari, allo scopo di favorire una migliore identificazione delle diagnosi, come ad esempio: “fattori di rischio genetici e fisiologici, indicatori prognostici e altri presunti indicatori diagnostici e l’organizzazione dei disturbi in spettri sulla base di comuni circuiti neurali, vulnerabilità genetica ed esposizioni ambientali” (p. 12).

In questa prospettiva, numerosi disturbi dovrebbero possedere precise cause e legami organici, e da ciò si deduce la volontà di avvicinarsi all’uso del modello medico anche nel campo dei fenomeni psicologici, oltre che per le patologie fisiche. Implicita è l’adesione a una metodologia medica di tipo riduzionista, per cui la personalità o il comportamento risultano sovrapponibili con le disposizioni biologiche che ne dovrebbero stare alla base. Il tentativo di neutralità e la posizione ateorica potrebbero essere letti come un mascheramento dell’impossibilità a rispettare la coerenza del modello medico perché inapplicabile nell’ambito delle complesse realtà mentali (Pagliaro & Salvini, 2007).

Nel PDM si citano le “basi teoriche o scientifiche” prevalentemente in riferimento agli studi sull’efficacia delle psicoterapie, in particolare rispetto alla “depressione maggiore” (p. 672). Si dichiara inoltre la mancanza di prove rispetto all’efficacia della psicoterapia dinamica per questo tipo di trattamento, precisando tuttavia il rischio di emarginare tale approccio per il ridotto numero di ricerche al cospetto di alternative empiricamente validate, nonostante l’efficacia clinica operativamente riscontrata. Questo esempio permette di mettere in luce come il Manuale si pronunci sulla validità empirica, non ritenendola l’unico elemento rilevante a sostenere la fondatezza scientifica di un trattamento o di una psicoterapia, tuttavia non descrive gli eventuali altri criteri sufficienti o necessari.

IV. “Comunità scientifica”

Nel DSM-5 si attribuisce importanza alla comunicazione tra i diversi professionisti, alla possibilità di usufruire di un linguaggio condiviso e all’accordo tra gli operatori e i ricercatori al fine di individuare criteri diagnostici appropriati.

Si trova infatti nel manuale la seguente premessa:

Mentre il DSM è stato la pietra miliare del sostanziale progresso nell’affidabilità, è stato anche riconosciuto dall’American Psychiatric Association (APA) e dal lavoro della più ampia comunità scientifica rispetto ai disturbi mentali che la scienza passata non era sufficientemente matura per individuare complete diagnosi valide – questo per fornire validatori scientifici consistenti, forti e oggettivi per ogni singolo disturbo del DSM. (APA, 2013, p. 5)

Il tema della comunicazione condivisa si pone come critico per il DSM-5 e le sue precedenti versioni. Innanzitutto, il manuale si è proposto come neutrale, oggettivo e ateorico, oltre che come “pietra miliare del progresso nell’affidabilità”, mettendo in secondo piano la soggettività e le teorie implicite o esplicite dell’osservatore-studioso. Migone ha descritto a questo proposito i due principi organizzativi che hanno caratterizzato la storia della nosografia e che possono contribuire a comprendere gli sviluppi dei sistemi nosografici stessi. Questi sono il principio “del grande professore” e quello del “consenso degli esperti” (De Girolamo & Migone, 1995, p. 41). Con la prima espressione ci si riferisce al fatto che le principali classificazioni psichiatriche sono state, per circa duecento anni, elaborate direttamente dai più autorevoli esponenti della disciplina (ad esempio Pinel, Kraepelin, Bleuer e Schneider). La diffusione di questi schemi classificatori dipendeva dall’autorevolezza di chi li proponeva. Ciò permette di spiegare l’evidenza percepibile a livello operativo, ovvero la grande quantità di criteri diagnostici, molti dei quali appartenenti a tradizioni diagnostiche differenti e in parte ancora presenti nell’ultima edizione del manuale. Il secondo principio è stato quello che ha dato luogo ai vari sistemi diagnostici internazionali o nazionali: le successive edizioni del DSM e dell’ICD. Il prodotto di queste tendenze organizzative, insieme all’esplicito richiamo a criteri diagnostici differenti, nonostante il tentativo di armonizzazione, è il riferimento a dati non supportati da evidenze empiriche o a dati e prove che possono fungere solo da indicatori, piuttosto che elementi garanti della relazione causa-effetto.

Si possono infatti richiamare numerosissime critiche mosse da diverse aree scientifiche e civili, in particolare la configurazione di problematiche mentali attraverso criteri di adattamento sociale, politico e legale (Szasz, 1975) e i legami poco trasparenti con le case farmaceutiche (Sharkey, 1994; Alpert, Furman & Smaha, 2002). Riferendosi alla posizione conoscitiva di chi usa le classificazioni nosografiche, alcuni autori sostengono che “gli atti, il modo di guardare e ascoltare dell’osservatore sono più che una tecnica, è il disgelarsi epistemologico di un’intenzionalità conoscitiva che fruga nell’incomprensibilità evanescente, arruffata e contraddittoria di una voce e di un comportamento per metterne a nudo il nucleo originario, l’elemento patologico e genetico di un particolare stato di malattia” (De Leo & Salvini, 1978, p. 137).

Anche per il PDM, la comunità scientifica e la comunicazione condivisa si pongono come elementi rilevanti. In particolare, il tentativo di evitare l’uso di termini di origine strettamente psicoanalitica si presenta come un modo di avvicinarsi ad altre teorie e all’uomo comune. Se da una parte il vantaggio è quello di non eliminare il ruolo della teoria e del professionista, operazione epistemologicamente impossibile, l’impressione che si può ricavare è anche un’altra. La presenza di una parte esplicitamente dedicata alla teoria e alla ricerca suggerisce come gli autori non vogliano offrire un’opera senza esplicitare il percorso teoretico che ha condotto a svilupparla. Al contrario, l’idea di valutazione del paziente che il PDM implica, rimanda a un atteggiamento fortemente influenzato dalla teoria usata. Quindi, anche la scelta di non riferirsi ai termini tradizionali della psicoanalisi può essere considerata come un tentativo ambiguo di celare presupposti comunque ritenuti fondamentali. L’avvicinamento terminologico ad altri riferimenti teorici comporta poi il rischio di perdere i riferimenti del costrutto psicoanalitico in funzione di una comprensione linguistica che sembra però portare all’uso di categorie di senso comune.

Discussione

Configurazioni di “scientificità” e implicazioni pragmatiche nell’ICD-10

L’ICD-10 è un manuale che viene usato per la definizione e il trattamento delle patologie organiche e dei “disturbi psichici e comportamentali”. Sulla base della semantica che qualifica le varie parti che lo compongono, si può notare come il campo dei fenomeni psicologici venga generalmente equiparato a quello dei fenomeni organici, suggerito dall’adozione dello stesso linguaggio e dagli stessi metodi e strumenti propri del modello bio-medico, generando così specifici effetti pragmatici.

I valori d’uso dei termini analizzati nell’ICD-10 rimandano a una concezione della “scienza” come legata esclusivamente alla prassi e al modello medico. Gli elementi che danno forma a questo particolare tipo di scientificità possono consistere nel processo classificatorio e nel procedimento statistico, non dimenticando però le difficoltà che li caratterizzano, tali da considerarli imperfetti ma necessari. Il proposito di rendere perfettibile tale processo implica un procedimento conoscitivo di tipo cumulativo, nonché la credenza di poter giungere a conoscenze definitive e complete. L’approccio conoscitivo specifico emergente dal Manuale sembrerebbe così dare seguito ai principi della tradizione del Positivismo ottocentesco.

In generale, le implicazioni che emergono riguardano il fatto che si possa arrivare a trattare un “disturbo psicologico” alla stregua di una patologia fisica, attraverso la ricerca di relazioni causali tra sintomi, come se questi fossero: 1) indipendenti dal contesto storico-sociale che li dota di senso; 2) standardizzati in modo univoco; e 3) separabili dall’osservatore. Nonostante tale inclinazione, nel manuale si cita tuttavia che l’approccio verso i cosiddetti disturbi mentali è categoriale, ma non vincolante all’elenco sintomatologico, poiché la valutazione dei criteri e la diagnosi finale spetta al professionista, e ciò consente di porre l’accento e rendere preminente il tema della responsabilità del professionista stesso.

In conclusione, si può dunque evidenziare da una parte il rischio di aderire totalmente al modello medico anche per ciò che riguarda i fenomeni psicologici, dall’altra la consapevolezza dell’incertezza e della non validità a priori del processo classificatorio e della distinzione tra gli ambiti della ricerca e della clinica, i quali possono perseguire obiettivi e utilizzare strumenti e metodi differenti.

Configurazioni di “scientificità” e implicazioni pragmatiche nel DSM-5

Nel DSM-5 si afferma l’esistenza di una “scienza dei disturbi mentali” in continua evoluzione, con espliciti riferimenti alla ricerca evidence-based, i cui strumenti considerati validi provengono dalla biologia, dalle neuroscienze, dagli studi di genetica e di neuroimaging e tendono all’“esattezza diagnostica” con impliciti richiami al modello medico.

Tali elementi, che dovrebbero garantire la “scientificità”, sono però fortemente contestati da diverse aree scientifiche e da una massa critica di studiosi che sostengono l’impossibilità generale del DSM-5 di affermarsi come “neutrale, ateorico e oggettivo” (come dichiarato nel manuale), sia per l’uso di riferimenti disciplinari antitetici e antagonisti sia per l’impossibilità epistemologica di approcciarsi ad un oggetto di studio in maniera neutra, senza pre-concetti e teorie, siano queste di tipo personale che di tipo professionale (Boyle, 1990; Migone & De Girolamo, 1995; Bingam & Banner, 2014; Cosgrove et al., 2014).

Inoltre, il termine “scienza dei disturbi mentali” sembra trovare nell’aggettivo “mentale” la sua specificazione, la qualità del “disturbo” individuando nella mente la sede, come se questa potesse essere il referente empirico del “disturbo” stesso. Ma in termini epistemologici va considerato che ciò che si intende per “mente” non è univoco e definito, ma dipende sempre dalla teoria usata per descriverla. Le implicazioni riguardano il fatto che si paragona il comportamento umano ad un supposto ente naturale finendo per produrre notevoli improprietà conoscitive, metodologiche e pragmatiche, sia nella clinica che nella ricerca.

Nonostante la conferma della limitatezza del modello categoriale, l’apertura all’approccio dimensionale potrebbe riguardare l’ampliamento dei confini dei “disturbi”, nonché la tendenza a portare all’attenzione clinica diverse situazioni di disagio personale non necessariamente “patologiche” (Frances, 2013). Infine, oltre al rischio di patologizzare con più facilità ciò che può appartenere alla vita quotidiana, anche il perseguimento dell’evidenza non fa che rendere ancora più “tecnologica” la prassi psichiatrica (Bracken et al., 2012) che produce, ancora una volta, l’errore di eliminare il rapporto clinico-interlocutore, inevitabile e fondamentale.

Configurazioni di “scientificità” e implicazioni pragmatiche nel PDM

La configurazione che emerge nel PDM si caratterizza per alcuni elementi peculiari, ad esempio la particolare descrizione della “scienza psicologica”, la critica della psichiatria nosografica tradizionale e dei dati delle neuroscienze o evidence-based quando ritenuti validi a priori senza una loro integrazione con quelli empirici provenienti dal campo clinico. Con il termine “buona scienza” si fa riferimento al giudizio clinico, alla soggettività e all’integrazione tra sistemi nosografico-descrittivi e interpretativo-esplicativi, colmando lo iato tra scienza e pratica.

Il termine “scienza” è tuttavia usato a volte riferendolo alle discipline tradizionali o a quelle che attualmente sono ritenute valide (come le neuroscienze, le quali vengono in parte criticate), altre volte in riferimento alla psicologia e alla psicologia psicodinamica o più in generale ad indicare sistemi scientifici più o meno validi. Da questi usi si ravvisa una certa confusione del termine e del concetto, che appunto assume significati diversi e pertanto si rende interpretabile. Il PDM ha tuttavia il merito di evidenziare l’importanza di aspetti quali la soggettività, la storia di vita idiosincratica e in generale la complessità dell’“oggetto” di studio e di mettere in luce i limiti degli approcci prettamente quantitativi e standardizzati. Tali approcci sono considerati riduzionisti e ipersemplificanti e soprattutto vengono criticate le categorie neutralità, controllo ed evidenza. Più che un’analisi critica specifica tuttavia, l’approccio del manuale è quello di invocare una integrazione tra modalità diagnostiche differenti ed è per questo che si indicano altre direzioni.

In sintesi: alcune criticità

Dall’analisi dei tre manuali, quindi, si possono notare modi di intendere la scientificità molto differenti, in cui i termini “scienza” e “scientifici” sono molto utilizzati, e talvolta ostentati, ma senza alcuna fondatezza. Tale aspetto critico si concretizza nella non definizione dell’oggetto di lavoro dei manuali, così come la differenza nelle procedure usate per giungere a una diagnosi corretta. Come si rileva dall’analisi e dell’approfondimento di questi manuali, in questi ultimi anni metodi e procedure basate unicamente su riferimenti quantitativi e psicometrici vengono privilegiati anche in ambito clinico nonostante non siano stati creati in tale ambito (Rust, Golombok & Abram, 1989). La concezione di base di queste procedure è che le variabili e le categorie assumono lo stesso peso e significato, portando con sé l’idea che ogni clinico possa essere considerato in ugual modo poiché clinico e che alcuni pazienti siano simili tra loro perché condividono la stessa diagnosi, gli stessi risultati di laboratorio, le stesse caratteristiche demografiche (Fava, Ruini & Ravanelli, 2004; Feinstein, 1987; Tomba & Fava, 2006).

La valutazione e il giudizio clinico vengono considerati in alcuni manuali, come il DSM-5, come elementi che devono essere sviluppati e promossi, nonostante non vengano esplicitati i criteri e le modalità per farlo. Si rileva dunque uno scarto tra diagnosi e trattamento, basato sulla presenza di metodi errati (es. misure inaffidabili, differenze di localizzazione inspiegabili, ignorando interazioni complesse nell’analisi) che producono risultati incoerenti e non riproducibili (Kraemer, 2015). Per superare tali limiti metodologici, il National Institute of Mental Health —NIMH— ha sviluppato la sperimentazione Research Domain Criteria —RDoC—, ovvero una matrice di unità di analisi per diversi domini (cognitivi, processi sociali, sistemi di eccitazione e regolazione), tutti esaminati in un contesto che enfatizza le traiettorie di sviluppo e le interazioni dell’individuo con il suo ambiente. La matrice RDoC è diventata un quadro di riferimento in quanto libera gli scienziati dalle categorie tradizionali che si sono dimostrate eterogenee. RDoC parte dal presupposto che questi nuovi cluster non solo forniranno categorie diagnostiche più precise, ma produrranno anche una migliore guida al trattamento e, in ultima analisi, porteranno a risultati migliori (Insel et al., 2010; Cuthbert & Kozak, 2013; Keshavan, Clementz, Pearlson, Sweeney & Tamminga, 2013).

Oltretutto, man mano l’analisi diagnostica si allontana dal mondo degli eventi fisici e si entra in sistemi costruiti da relazioni, regole, simboli, scopi, episodi e generi narrativi, si corre il rischio di non considerare le proprietà dell’osservatore e di incorrere in diversi errori di attribuzione, in inferenze e in improprietà epistemologiche (Salvini & Dondoni, 2011; Iudici, Salvini, Faccio & Castelnuovo, 2015). Ed è per questo che dall’organizzazione dei manuali da noi considerati si eredita il rischio che le scienze diagnostiche della psiche possano identificarsi in un esperto capace di valutare l’anormalità o meno di pensieri, percezioni, azioni ed emozioni mettendo in luce l’eventuale natura patologica ricorrendo a configurazioni nosografiche o tipologiche di personalità che, nonostante la possibilità di comunicazione condivisa, portano con loro il rischio della reificazione e del riduzionismo di costrutti, situazioni o fenomeni complessi che si edificano nei discorsi e nelle interazioni.

Conclusioni non definitive e proposte operative

In questa ricerca abbiamo esplorato l’uso di alcuni costrutti inerenti alla scienza, come ad esempio “Scienza medica, scienza dei disturbi mentali, scienza psicologica”, “Comprensione e conoscenza scientifica”, “Principi scientifici” e “Comunità scientifica”. Abbiamo notato come l’uso di tali espressioni nei tre manuali indagati faccia riferimento a campi di significato molto differenti l’uno dalle altre. Se per scienza intendiamo conoscenza, come l’etimo richiede, dovremmo sostenere che la scienza è processo di conoscenza, ovvero metodo di lavoro applicato ad un definito ambito di applicazione e ciò non è prerogativa dei luoghi, delle accademie o degli Istituti di ricerca. Nei manuali indagati non vi è tuttavia traccia del processo di conoscenza che ha reso possibile le classificazioni individuate e neanche di una definizione di scienza applicata secondo gli specifici campi di indagine citati, come medicina, psicologia, psichiatria, scienze sociali. Nonostante ciò tali costrutti inerenti la “scienza” sono molto diffusi e usati nei manuali e, operativamente, considerano i fenomeni come dati di fatto quantificabili e osservabili in maniera neutrale e indipendente dal sistema di riferimento dell’osservatore, dei contesti e delle biografie delle persone. Come abbiamo visto, ciò è spesso il preludio alla ricerca di omogeneità delle variabili psicologiche che, psicometricamente, assumono lo stesso peso e significato (Nierenberg & Sonino, 2004). L’omogeneità delle componenti infatti, misurata da test statistici come l’alfa di Cronbach, è spesso considerata come il requisito più importante per una scala di valutazione. Ma tale ricerca dell’omogeneità statistica può oscurare la capacità di rilevamento del cambiamento dello stato psicologico del test, riducendone la sua sensibilità. In altre parole, la natura ridondante degli item di una scala può certo aumentare l’alfa di Cronbach, ma diminuire la “sensibilità” (Tomba & Fava, 2006). In termini operativi, una proposta di superamento della psicometria è derivato dall’approccio clinicometrico introdotto da Feinstein (1987), che nell’ambito clinico si propone di considerare il giudizio clinico nella valutazione dei fenomeni clinici, che andrebbero inquadrati a livello diagnostico e terapeutico secondo una coerenza clinica e non solo statistica (Bech, 2004; Favarelli, 2004; Fava & Belaise, 2005; Faccio, 2011). Lo stesso Feinstein (1990) considerava critico svolgere ricerca in ambito clinico solo attraverso il criterio della significatività statistica, che eludeva l’importanza, prima della sperimentazione, di identificare il valore della differenza tra gruppi considerata clinicamente significativa. Sotto il profilo metodologico, si evidenzia l’importanza di introdurre nuovi indici di valutazione (qualitativi o quantitativi) da usare non in modo standardizzato e rigido, ma in relazione alle esigenze cliniche e al fenomeno definito secondo i propri riferimenti concettuali (Turchi & Romanelli, 2012).

Si vuole infine dunque rimarcare l’utilità della costante riflessione epistemologica nel campo psicologico in quanto può consentire l’aderenza a criteri basati sull’appropriatezza e sulla coerenza tra teorie, metodi e modelli di intervento. Questa riflessione può permettere di non cadere in confusioni concettuali, metodologiche e operative poiché fornisce la possibilità di situare e contestualizzare i fenomeni di studio e di fare uso di strumenti e metodi adeguati agli stessi.

Un’altra proposta operativa si basa sulla considerazione che la scientificità di una disciplina non dipende soltanto dai suoi contenuti particolari e dalla validità definitiva degli stessi, resa peraltro difficile dalla pluralità teorica e pragmatica della psicologia clinica, ma dal fatto che questi siano organizzati in un corpus teorico-concettuale coerente, rigoroso e rispettoso delle tonalità e delle sfumature idiosincratiche e contestuali che danno forma ai fenomeni psicologici.

Questa ricerca esplorativa sui significati che accompagnano gli ideali di scientificità ha dato l’opportunità di immergersi nei campi della psicologia e della psichiatria, problematizzandoli e giungendo a risultati che vorrebbero fungere da occasione per riflettere sulla costruzione del senso scientifico della psicologia clinica, dei suoi ambiti conoscitivi e dei relativi modelli di intervento.

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Nota

1 Alessandro Salvini (1998) distingue tra paradigma meccanomorfico e antropomorfico. Nel primo si assume che i tratti, le disposizioni, i dinamismi interni e i condizionamenti esterni s’impongano all’individuo, determinando i suoi modi di pensare, percepire e agire. Nel secondo si assume che la persona usi attraverso competenze, regole e significati a lei accessibili quelle parti di sé più adatte a sostenere intenti di adattamento o cambiamento delle situazioni interattive.

Author notes

* Contacto principal para correspondencia: Antonio Iudici, Department of Philosophy, Sociology, Education and Applied Psychology, University of Padova, Padova, Italy. Correo electrónico: antonio.iudici@unipd.it